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Autore Discussione: Poeti di Villarosa  (Letto 5256 volte)
osvaldo

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« inserita:: 06 Ottobre 2008, 17:50:49 »

 

                                                                                               RICORDO DI CARMELO D’ACCARDO
                                                                                 (Carminu Accardu)

Da ragazzo gradivo ascoltare i grandi, non tanto per morbosa curiosità, quanto per conoscere esperienze e fatti del passato.
Ricordo don Carminu Accardu, il poeta. Mi soffermavo lì presso a lui ogni qual volta lo vedevo in compagnia d’altri perché sapevo che di lì a poco sarebbe esploso un gioco d’artificio di poesia dialettale, che avrebbe inondato tutt’intorno.
Ricordo tanti piccoli rimatori volenterosi che si volevano cimentare con lui; si preparavano un mottetto, sperando che si presentasse l’occasione proprizia per coglierlo di sorpresa.
Invano!
Don Carminu, apriva le paratie del suo invaso, e sommergeva l’uditorio ad ondate successive di arguzie poetiche che sarebbero state da registrare, se fosse stato già a disposizione tale strumento.
Colpiva la pluralità delle immagini che gli fluivano spontanee ed azzeccate; non una era pleonastica, non una si smorzava  o decadeva.
La vena poetica, la fantasia, la stessa prosa, che poteva non essere il suo forte, diventava avvincente.
La sua vena estemporanea era suggestiva ed affascinante, ma quando si sedeva per scrivere diventava ridondante e volendo dire tanto cadeva nella prolissicità tipica dei poeti popolari.
Ero ancor meno di ragazzo ed ho assistito ad una manifestazione culturale pubblica all’aperto. Gl’interventi di intellettuali e sacerdoti erano corposi e pacati, ma quando prese la parola lui, fu un torrente in piena.
Non ricordo più il fluire dei discorsi che capivo perfettamente malgrado l’età poco più che infantile, ma il mio unico ricordo rimasto fu quello di un banalissimo avvenimento.
Il poeta raccontava di un 19 marzo della sua infanzia, festa di San Giuseppe, si usava allora, per grazia ricevuta, che si preparasse per quel giorno (a parte la Tavola di san Giuseppe) una caldaia di pasta, lenticchie e finocchietti di campagna che si distribuiva a poveri e a chiunque altro si presentasse. Il piccolo Carminu ebbe il suo piatto di creta pieno di minestra, s’allontanò in disparte per consumarlo, quando sul fondo toccò col cucchiaio qualcosa di duro.
Quel che segue era senz’altro frutto della sua vulcanica fantasia, ma ai poeti si perdona tutto. Quello che conta è il modo d’esprimersi, la scelta dei tempi, la creazione dell’attesa, il susseguirsi delle ipotesi, la cattura dell’attenzione dell’uditorio…
Cos’era il pezzo in fondo al piatto?
Tante le ipotesi, uno il desiderio…
E se fosse un pezzo di carne con osso?
Il poeta enucleava le sue sensazioni quasi le provasse in quell’istante  e intanto faceva assaporare all’uditorio l’agognato premio sfuggito al mestolo dell’apparecchiante.
Quelli erano tempi duri, la carne era sulle mense dei poveri contadini una rarità e sempre in minima quantità, talvolta forse solo sognata…
Qui il colpo di teatro: si trattava di uno dei cocci di tegola che si mettevano nel fondo della caldaia per non fare appigliare il cibo!
Di queste trovate, tutte argute e paradossali ne aveva tante e gli venivano spontanee e fluenti come se fossero comuni, nell’ordine dei fatti del giorno.
Ai bambini e ai poeti sono concessi tali svolazzi di fantasia!
« Ultima modifica: 06 Ottobre 2008, 18:02:15 da osvaldo » Registrato

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niki


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« Risposta #1 inserita:: 06 Ottobre 2008, 19:57:50 »

Grazie Osvaldo le tue storie sono tutte fantastiche, a me personalmente mi piace leggere tutti i tuoi scritti. Braaavo!
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osvaldo

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« Risposta #2 inserita:: 20 Novembre 2008, 18:44:19 »

Una poesia di Carmelo D'Accardo

         VILLAROSA MIA
 
Oh! Terra matri, Villarosa mia,
 Di lo iornu ca fu, ca ti lassai
Persi la testa, e persi la valìa.
Persi tutti li beni, c'acquistai;
Persi lu sfogu di la puisia.
Di tutti li me versi ca cantai
Ristaru tutti cosi ppi la via.
Povira Musa, comu ti nghiagai.

E cantu malinconicu, e spirdutu
Tuttu l'affettu, e la me amurusanza
Di chidda terra, unni fui annasciutu

A Villarosa, fonti di spiranza
Di lu me pettu, lu primariu scutu
E ppi biddizzi, nuddu ca 1'avanza.

                         2
nicu paisi, ccu pocu abitanti
mpastatu di pueti, e ammiraturi
ca 'nzina la Cummedia di Danti
la sanu analfabeti e professuri
canuscinu la rima canzunanti
canuscinu la forza, e lu valuri
e si un pueta parla a duci canti
l'aduranu cunformi, a Diu Signuri.

nuddu senza superba, tutti amici
senza distanza, coppula e cappeddu
fu la natura, co accussi li fici
quannu soffri di pena un puvireddu
a vrazza aperti, nuddu ca si sdici
‘mbrazza lu teni comu un bambineddu.



Nota: Può sembrare esagerato che persone d'umile condizione e cultura conoscessero ampi brani della "Divina Commedia"; la cosa stupiva anche me quando sentivo zolfatai o contadini recitare a memoria Dante: il più delle volte si trattava di persone che avevano avuta la disgrazia d'essere state ospiti delle carceri. Non era il caso del D'Accardo.
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