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Autore Discussione: ANTICHI CASI DI COMUNE MISERIA  (Letto 36734 volte)
Rommel


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« Risposta #30 inserita:: 12 Giugno 2009, 22:01:26 »

ti ricordi alcune volte c'erano le date.
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L'amuri é misuratu,cu lu porta l'havi purtatu


« Risposta #31 inserita:: 13 Giugno 2009, 12:55:17 »

ti ricordi alcune volte c'erano le date.
si c'érano le date ogni punta di cantunera.Ma buttavano il DDT perché molte persone avevano l'abitazione in comune con gli animali domestici  cose del medioevo,adesso quelle persone abitano nelle ville o cuzzulampu e si credono della alta società ma prima vivvevano a minzu a grassura.
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Quando si comincia ad inalzarsi la superbia allora si comincia ad abassar la fortuna
Rommel


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« Risposta #32 inserita:: 13 Giugno 2009, 22:22:50 »

la nostra situazione non era peggiore di tanti borgi rurali del resto d'italia, forse nelle città si stava meglio, ma nei paesi era pressocchè uguale.

negli anni siamo riusciti, grazie al progresso, ad arrivare una vita in condizioni migliori di allora, anche se c'è ancora tanta gente che vive ai margini e con pochi euro al mese...........

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« Risposta #33 inserita:: 18 Gennaio 2010, 23:56:02 »

                  UN PENOSO SCHERZO DI CARNEVALE  Vedi anche: www.bellarrosa.blogspot.com

Fin dai tempi antichi, anche se con nomi diversi, il Carnevale è stato sempre una manifestazione popolare molto attesa, tanto che in quei giorni persino gli stessi schiavi erano svincolati dall’obbedienza ai rispettivi padroni.
Negli anni della mia infanzia e prima giovinezza i festeggiamenti erano più articolati e partecipati da quasi tutta la comunità cittadina, più di quanto avviene oggi: musica e balli in piazza, mascherate, carri addobbati con più o meno gusto, su cui si rappresentavano sceneggiate da far crepare dalle risate…
Il tutto si rappresentava nel ristretto ambito del paese perché allora non era semplice, com’è ora, di andare a festeggiare altrove.
La festa continuava in casa in compagnia di parenti, amici e vicini di casa. Mi raccontava mio padre che ai tempi della sua infanzia, specialmente nelle famiglie del ceto zolfifero, era comune organizzare a “maccarrunata nna majdda”.
Le donne tutte impastavano la pasta in grossa quantità in una capiente madia, la lavoravano ben bene a forza di polsi per renderla omogenea, poi si mettevano, di buona lena e in allegria, all’opera lunga e paziente di sfilare uno ad uno migliaia di “maccarruna di casa”. Questi erano cotti in una grossa caldaia, si scolavano e si versavano “nna majdda” già  ripulita dei residui dell’ impasto precedente, si condivano col sugo di ragù di maiale… e poi iniziava il clou della festa: tutti ad attingere dall’unico recipiente per mangiarne a volontà,  persino con le mani per dare colore alla serata e far scaturire gioiose gaiezze.  A tanto non potevano mancare vino e salsiccia …
Ad un certo punto spuntava un organetto e tutti a “trippari”, fino a mezzanotte, ma non oltre perché di già si entrava nel mattino delle Ceneri, tempo di Quaresima.
Era triste il carnevale dei tempi di guerra, ma quando questa si concluse il popolo si scatenò quasi a rifarsi del tempo perduto.
Erano però tempi di più dura miseria: le miniere erano ancora chiuse, la porta dell’emigrazione al momento non s’era aperta…
In quel clima carnascialesco in cui era costume consumare in un giorno le risorse di un mese e forse più, le privazioni imposte dalla miseria erano più struggenti di quelle degli altri santi giorni.
La storia che segue è autentica, raccontata a mio padre da un nostro concittadino, che fu dei primi a riprendere il lavoro, dopo l’invasione anglo-americana, nella miniera di Trabonella.
 Il co-protagonista della vicenda era stato un suo capomastro di Caltanissetta che l’aveva raccontata in miniera per sorridere un po’ sulla la trovata agro-amara d’un suo congiunto.
S’avvicinava il Martedì Grasso e nella credenza di Michele, cognato del capomastro, non c’era niente perchè tornato dalla prigionia era ancora disoccupato e senza più il misero sussidio prima erogato alla famiglia. S’aspettava un atto di generosità da parte della sorella, ma ancora niente era arrivato.
Uno di quei pomeriggi era tornato dai campi dove aveva parato di frodo dei lazzi per far cadere in trappola qualche coniglio selvatico da cucinare per la festa, ma la fortuna era stata tutta dalla parte dei conigli.
Svuotò sul tavolo il contenuto della “sacchina” e ne uscirono fuori “cicoria, cardedda, du pedi di carduna” e qualche chilo di rosse “radici” che gli aveva fatto dissotterrare un suo conoscente contadino.
Moglie e marito osservavano quei vegetali che erano soliti abbondare nella mensa dei bisognosi e tristemente pensavano ai loro figli che si sarebbero aspettato qualche “cadduzzu di sozizza…”
Nel tempo più triste della guerra si era pensato di allevare delle galline ma non fu possibile perché  “u catuju” era troppo piccolo e per fare entrare la sera in casa “a caggia” doveva uscire un letto…
Tristemente la consorte rievocava:
 - Mia madre diceva: “Jè Carnivali, poviri e ricchi fanu maccarruna…”
Di rimando non meno sconsolato il marito:
 - E mio nonno aggiungeva: “e ì ca mancu pani àiu m’addubbaiu ccu na cozza di carduni…”
Intanto fissava i rosseggianti ravanelli sul tavolo e gli sovvenne il detto: "Pani e radici socchi si mangia nun si dici"
- Per forza, - chiosava tra sé e sé Michele,-  c’è veramente da vergognarsene a parlarne, specialmente quando non si ha nemmeno il pane…
Per sfogare il nervosismo ricominciò a rovistare nella vecchia credenza che si rivelava sempre più taccagna, quando mise le mani su in bicchiere incrinato nel cui fondo stava una massa grigiastra con grani di sale in superficie; affondò due dita e tirò fuori un filo lungo informe: era il budello rimasto dall’ultima salsiccia consumata a Natale…
Sbattè con gesto stizzoso lo sportello e tornò a sedersi appoggiando i gomiti sul tavolo e affondando le mani tra i capelli.
Ad un tratto scattò in piedi, andò a prendere un grosso coltello e si mise a triturare sul tavolo i ravanelli: il bianco della polpa si intrecciava col rosso della buccia esterna, creando un effetto cromatico particolare…
 La moglie, sbalordita e preoccupata dello stato mentale di Michele, tentò di  fermarlo: - Che fai? Rovini il poco che abbiamo?...
Secco sbottò Michele: “Tu fatti a quazetta!... E muta!”
Circa un’ora dopo chiamò  Lidduzzu che ancora giocava in strada, gli consegnò un involto e disse: - Portalo alla zia Annetta e torna subito, senza fermarti lì.
Annetta curiosa, appena il nipote si fu dileguato, aprì il fagottino e restò di ghiaccio; poi: - Gesù! Gesù!... "Lu poviru nunn’avviva e limusina faciva…!?"
Il marito che rientrava in quel momento trovò la moglie ancora inebetita davanti a una corda di salsiccia divisa “a caddozza” con fili di raffia.
Il consorte al comune stupore aggiunse la personale mortificazione patita: era uno scorno per lui capomastro in piena attività ricevere un tal dono da un disoccupato che non aveva pane nemmeno per i figli! Semmai doveva essere lui ad aiutare il cognato che si trovava in stato di reale bisogno.
Per qualche minuto moglie e marito si guardarono intontiti e senza parole.
Ruppe il silenzio Annetta: - Di certo non possiamo ricambiare con altra salsiccia perché ne hanno tanta… Che si fa?
Il giorno dopo zia Annetta chiamò Lidduzzu e gli consegnò una sporta con dentro un involto di carta oleata con due chili abbondanti di “custiciddi di crastagniddu”, un capiente fiasco di vino e un pacchetto. Indicando quest’ultimo, la zia raccomandò al nipote:
 - Ccu chisti vuatri carusi vi faciti a vucca duci.
Le due famiglie poterono festeggiare decorosamente il carnevale.
L’originale quanto disperata trovata suscitò una lunga risata liberatoria in ambedue le case.
Essa ancora oggi echeggia fra noi, soprattutto perché tocca gli animi in profondità: cambiano i tempi, ma la tristezza della miseria non s’eclissa mai.
« Ultima modifica: 07 Febbraio 2011, 23:24:08 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #34 inserita:: 19 Gennaio 2010, 11:23:55 »

Buongiorno bella davvero , solo per questa festa nei casi di comune miseria le storie possono avere un lieto fine, i tempi cambiano i personaggi non sono gli stessi, ma si è detto e si dirà sempre "cambiano i suonatori ma la musica rimane la stessa". Arrivederci a presto
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« Risposta #35 inserita:: 24 Gennaio 2010, 18:07:46 »

Buonasera.Per l'imminente arrivo del Carnevale volevo scrivere qualcosa di vissuto, ma visto che noi siamo la storia ripensandoci un pochino se scriverò del presente credo che lasceremo qualcosa nella storia di chi verrà dopo per questo ho rifletuto un pò ho contato fino a dieci e poi mi sono deciso di scrivere una letterina a mister Carnevale:
Ogni anno puntuale arrivi tu mister Carnevale
Nel mio paese per favore non farti sentire
perchè chissà dove andremo a finire
qui non sei più il benvenuto
 te lo dice chi il Carnevale lo hann vissuto
 tra sfilate ,carri , pupazzi e schiamazzi
era bello per davvero e di verlo vissuto ne sono fiero
Tutto questo non c'è più e siamo rimasti con il naso in giù
Ti hanno dato il ben servito
questo paese è triste e sconsolato
ormai tutti ti hann scordato. Arrivederci a presto
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